7 Il dono dell’orzo guadagnato

La storia insegna che meno si legge e più si comprano libri Albert Camus, Giona o l’artista al lavoro

La vita civile è una fitta di rete di molte reciprocità. C’è la reciprocità del contratto, che nasce dai mutui bisogni, e che forma l’ossatura delle città, dei popoli e del nostro villaggio globale. Con questa si intreccia la reciprocità dell’amicizia, che somiglia a quella dei contratti (anche questa è bidirezionale, è legata a qualche forma di condizionalità, non è transitiva, ha bisogno di una certa equivalenza), tanto che alcuni autori del passato l’hanno guardata con sospetto perché troppo “mercenaria” (San Bernardo). C’è poi la reciprocità dell’agape, dove la risposta di B all’amore di A non è necessaria perché A continui ad amare, sebbene la felicità di A risenta della non-risposta di B (sebbene non fino al punto di smettere di amare), una reciprocità agapica che potremmo chiamare incondizionale. Più ci si allontana dal contratto e ci si avvicina all’agape, più la reciprocità assume forme indirette. Nella reciprocità indiretta positiva (c’è anche quella negativa delle varie forme di vendetta), A fa un’azione a vantaggio di B e poi può ricevere qualcosa da C. In questa reciprocità, quando A agisce a vantaggio di B non sa né se né come né quando né quanto qualcun altro (C) farà qualcosa per lui o per lei (C–»A). Quel mutuo vantaggio che è il cuore della reciprocità diretta, in quella indiretta è molto diverso, talmente diverso e sfumato da sembrare assente. Ma la vita continua, le comunità umane non muoiono perché noi siamo più grandi delle nostre reciprocità dirette e dei mutui vantaggi, e così siamo capaci di continuare a voler bene a qualcuno anche quando non siamo certi di un suo ritorno, anche quando siamo certi del suo non-ritorno. La reciprocità indiretta è essenziale, ad esempio, nel rapporto con i figli e figlie, che amiamo fino all’impossibile non perché pensiamo, tantomeno pretendiamo, che il nostro amore (A) per loro (B) produrrà domani una loro reciprocità diretta verso di noi (B–»A), ma perché speriamo che quell’amore che ricevono da noi li farà diventare capaci di amare altri (B–»C); e così continuano ad alimentare la grande catena della reciprocità sociale, che, forse, un giorno in qualche forma raggiungerà un pochino anche noi (D–»A). Se e quando manca la pratica di questa reciprocità indiretta il rapporto genitori-figli diventa oggettivamente incestuoso. Con i figli siamo spigolatrici di ultima battuta, per noi resta qualche spiga negli anni dei raccolti più generosi. «Boaz rispose a Rut: “Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito, e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso gente che prima non conoscevi”» (Rut 2,11). Boaz (C) viene a sapere che Rut (A) era stata benevolente verso sua suocera Noemi (B), e essendo un suo lontano parente, si sente mosso ad agire con benevolenza verso Rut (C–»A). Chiaramente dal racconto sappiamo che quando Rut aveva deciso, sulla via tra Moab e Betlemme, di seguire Noemi, non aveva in mente future ricompense, tantomeno questa di
Boaz. Lei ha agito seguendo il suo istinto, la sua vocazione, le sue motivazioni intrinseche. Ma la vita è capace di queste sorprese, e la benevolenza che seminiamo nel nostro campo fiorisce nel campo di un altro, o quando quel pane gettato generosamente e senza calcoli sul «volto delle acque» lo vediamo ritornare «in molti giorni» (Qoelet 11,1). Boaz continua a parlare con Rut: «”Il Signore ti ripaghi questa tua buona azione e sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”» (Rut 2,12). Boaz augura a Rut una “ricompensa” piena, una parola rara, mascòret, che significa salario. La troviamo nella Genesi, nel rapporto tra Giacobbe, anch’egli emigrato, e il suo futuro suocero Làbano: «Poi Làbano disse a Giacobbe: Indicami quale deve essere il tuo salario» (29,15). È questa la prima volta che nella Bibbia compare la parola salario. Il salario che Labano pagò a Giacobbe fu Rachele, che diventerà la sua moglie amatissima. E il libro di Rut continua a narrarci due storie parallele: quella della migrante moabita e quella della salvezza e della promessa. «Rut soggiunse: “Possa rimanere nelle tue grazie, mio signore! Poiché tu mi hai consolato e hai parlato al cuore della tua serva, benché io non sia neppure come una delle tue schiave”» (2,13). Serva, schiave. Non riesco ancora ad abituarmi al linguaggio che la Bibbia usa quando le donne si rapportano con gli uomini, soprattutto con quelli di status superiore. Possiamo seguire strategie ermeneutiche e linguistiche creative e sfumare queste parole (usando “domestica”, come in Rut, ed. San Paolo, p. 83); oppure possiamo sostare su queste parole dure come ci si ferma di fronte a una lapide eretta al dolore delle donne nella storia umana. Per ricordare, per non dimenticare, e poi non darsi pace perché, oggi, quel dolore venga eliminato per sempre da tutta la terra. «Poi, al momento del pasto, Boaz le disse: “Avvicìnati, mangia un po’ di pane e intingi il boccone nel latte cagliato”. Ella si mise a sedere accanto ai mietitori. Booz le offrì del grano abbrustolito; lei ne mangiò a sazietà e ne avanzò» (2,14). È Boaz il primo artefice di quella ricompensa piena. Nella Bibbia, e soprattutto nel libro di Rut, le promesse di ricompense per i giusti vengono chieste a Dio ma realizzate primariamente da uomini e donne. Boaz prima prega Dio che conceda a Rut un salario pieno, ma poi è lui che si adopera affinché quel giusto e abbondante salario si concretizzi. Sono queste le preghiere più belle: prima del pasto chiediamo a Dio di provvedere il pane per chi non ne ha e subito dopopranzo diventiamo noi i mezzi dove quel pane viaggia e arriva ai poveri; preghiamo per la pace nel mondo e poi diventiamo strumenti di pace spostando i nostri risparmi in banche disarmate; chiediamo al Padre un mondo più giusto e poi ci adoperiamo per la giustizia nella nostra città e nei salari della nostra impresa. «Poi lei si alzò per tornare a spigolare e Boaz diede quest’ordine ai suoi lavoratori: “Lasciatela spigolare anche fra i covoni e non fatele del male. Anzi fate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; lasciatele lì, perché le raccolga, e non sgridatela”» (2,15-16). Rut, terminato il suo dialogo con Boaz, torna a lavorare, e l’uomo resta solo con i suoi operai. Il dialogo tra questi uomini ci rivela un dettaglio particolarmente prezioso. Boaz per esprimere la propria benevolenza verso Rut avrebbe potuto prendere direttamente dell’orzo e donarglielo, utilizzando esplicitamente il registro del dono. E invece ricorre ad una strategia complessa, che coinvolge i suoi mietitori. Rut non sa che le spighe che troverà nella sua spigolatura non sono solo frutto della sua fatica e delle sua abilità, ma anche, e forse soprattutto, della benevolenza di Boaz. Ma Boaz ha preferito che Rut si procurasse il suo salario lavorando. Siamo di fronte a una delle pagine bibliche più dense e belle sul significato del lavoro. Se Boaz avesse preso l’orzo dal suo magazzino e le avesse donato la stessa quantità di frumento che lei raccolse in un intero giorno di lavoro, la contabilità dell’azienda di Boaz non avrebbe registrato una differenza nei ricavi, ma l’esperienza e la dignità di Rut sarebbero state molto diverse. Il dono è
spesso una esperienza umanamente positiva e ricca, ma quando lo mettiamo in alternativa al lavoro raramente è buono. Anche in quel mondo di “servi”, dove al lavoro mancavano molti dei diritti e delle garanzie che la civiltà umana ha sviluppato nei secoli successivi, la Bibbia ci dice che esiste un valore aggiunto nel guadagnarsi il salario col proprio lavoro invece di riceverlo come regalo-dono dal padrone. Duemilacinquecento anni fa il lavoro era molto più fragile e ingiusto del nostro, eppure la Bibbia ci dice che l’orzo guadagnato lavorando è migliore dell’orzo donato. E così ci dice anche che un buon datore di lavoro deve far di tutto perché i suoi lavoratori non si sentano servi che ricevono arbitrarie regalie da padroni benevolenti, ma persone che si guadagnano il loro salario con la loro fatica e il loro ingegno. E il giorno in cui iniziamo a pensare che il nostro salario non ci arrivi più dal nostro lavoro perché nel frattempo siamo diventati inutili all’impresa che ci continua con benevolenza a versare lo stipendio, in quel giorno inizia una stagione molto triste del lavoro e della vita, che deve finire presto. Ma in questo verso di Rut c’è di più. Boaz sa che Rut con il suo lavoro normale, sebbene già agevolato, non avrebbe guadagnato abbastanza per vivere lei e Noemi. Ecco allora il suo ordine ai mietitori di far cadere “apposta” le spighe. Lei non lo sa, e crede che le spighe raccolte siano interamente frutto del suo impegno e talento. E la Bibbia ci dice che è bene che lo pensi. Ma noi sappiamo, con la Bibbia, che non è interamente così. La sua percezione sovrastima, in buona fede, il rapporto tra impegno, talento e risultati. Ecco allora svelato un modo giusto e onesto di leggere il rapporto tra meriti e salario. Anche noi sovrastimiamo il ruolo dei nostri meriti nei nostri risultati. Neanche noi lo sappiamo, ma dietro i nostri buoni raccolti c’è spesso un Boaz (che nel libro è anche immagine di un volto buono di Dio) che ha fatto sì che le spighe siano maggiori dei nostri impegni e talenti. Siamo andati “per caso” a spigolare in quel campo, poi abbiamo incontrato un giovane fattore buono che non ci ha cacciato via, quindi è arrivato Boaz, che, “per caso”, era un parente di nostra suocera; poi siamo entrati nelle sue grazie, Boaz ci ha protetti dalle molestie degli altri lavoratori, ci ha fatto bere e mangiare, ci ha fatto passare dal terzo livello delle spigolatrici al secondo dei lavoratori, e infine ha chiesto di fare cadere “apposta” spighe per noi. C’è tutto questo dietro i nostri salari. Non dobbiamo dimenticarlo, soprattutto quando, in nome della meritocrazia, dobbiamo misurare e valutare i risultati, i meriti e i salari di chi passa in terza battuta quando ormai le spighe sono quasi finite. I nostri raccolti non coincidono coi nostri meriti. «Così Rut spigolò in quel campo fino alla sera. Batté quello che aveva raccolto e ne venne fuori quasi un’efa di orzo. Se lo caricò addosso e rientrò in città» (Rut 2,17-18).
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